Si fa un gran parlare della “rivoluzione” digitale del XXI secolo, dei suoi riflessi sull’assetto sociale e politico europeo, mondiale meglio sarebbe dire. Spesso serve anche a giustificare la crisi delle forze politiche senza affrontare i problemi reali. Il digitale rappresenta più che una rivoluzione, un passaggio di paradigma molto più profondo di qualsiasi cambiamento sociale, culturale ed economico concepibile da un’idea politica. Dall’altro lato, sembra che possa riproporre una dialettica tra le classi. Ma di nuova generazione. Oggi se il digitale resta confinato, egemonizzato dal capitalismo globale e a dimensione planetaria, rischia di produrre una società suddivisa tra pochissimi ricchi e tantissimi poveri, tra una piccola parte di sfruttatori e una massa sterminata di sfruttati. La metafora creata da OccupyWall Street è la più efficace: l’1% contro il 99% del mondo.
È cambiata la forma della socializzazione. Quando cambia la natura e la modalità con le quali gli umani si scambiano le relazioni, cambia tutto e la politica non può restare al palo, pena la propria decadenza, la propria marginalità, la messa in fuori gioco. Ma non è solo un problema dei partiti. Anche le istituzioni, le forme codificate tra l’Ottocento e il Novecento delle nostre democrazie sono investite da nuove domande, da nuove richieste di partecipazione e di decisione. L’avvento della rete pone, da tempo, la questione di un rapporto diverso tra l’idea della democrazia diretta e delle forme della rappresentanza. Già nel 1997 posi questi problemi in un saggio sulle forme della politica e l’avvento di Internet quando in Italia discutemmo della nostra Costituzione e dei Poteri, in un importante convegno del Partito della Rifondazione Comunista.
La sinistra a un binario morto e chi si occupa di innovazione è senza bussola
Molti hanno pensato che la rete, il digitale riguardasse le forme dello scambio comunicativo, che fossimo nell’ambito della libertà di espressione, del diritto a comunicare ed essere informati. Ma questi aspetti sono solo quelli più eclatanti, non quelli “strutturali”. La grande trasformazione digitale, come accade sempre all’interno delle società capitalistiche, riguarda il lavoro e la valorizzazione del capitale. Solo che la sinistra non ha voluto vedere ed è restata ferma agli schemi validi a metà del secolo scorso. Il risultato è che la sinistra è su un binario morto da un trentennio e chi si occupa di innovazione è senza la bussola di ciò che significa socialmente e produttivamente il digitale. Forse è arrivato il momento per un incontro fecondo. Ma per farlo occorre un salto di qualità. Da un lato, quello della sinistra, c’è bisogno di un quadro teorico nuovo e di nuovi gruppi dirigenti che sappiano comprendere e analizzare le nuove forme del capitalismo digitale e dall’altro, da parte dei movimenti che si sono poggiati sull’innovazione, l’abbandono del determinismo tecnologico, dell’illusione che la tecnologia risolva tutto, che all’interno della tecnologia ci sia la salvezza. Abbiamo bisogno di un bagno di umiltà da entrambi i lati.
Si è persa la “spinta propulsiva” di berlingueriana memoria
La trasformazione incessante delle nostre società ha cambiato, forse aggravandole, le questioni di fondo inerenti le diseguaglianze sociali così come anche inasprendo la lotta già esistente tra i potenti e i deboli, di chi sta in alto su chi sta in basso, degli sfruttatori sugli sfruttati. Ma tutto lo scenario che abbiamo davanti è completamente diverso dalle geografie che abbiamo prodotto con il pensiero dell’800 e del ‘900. Non che quelle analisi siano tutte da archiviare, ma quello che serve oggi, è capire ciò che è cambiato per adeguare le scelte politiche ad una nuova situazione economica sociale e politica, il tutto mantenendo salda una capacità di critica e la linea di ricerca onde saper cambiare tutto quello che non funziona più, che è diventato o obsoleto o ha perso la “spinta propulsiva” per dirla con Enrico Berlinguer.
Tre grandi cambiamenti prodotti nel novecento. Il lavoro ridescritto totalmente
A mio avviso nel ‘900 si sono prodotti tre grandi cambiamenti che gli occhiali otto-novecenteschi della sinistra hanno avuto difficoltà a vedere poi a comprendere. La prima grande trasformazione è stata quella dell’impatto delle tecnologie digitali nel mondo del lavoro. Il lavoro investito dalle potenzialità delle tecniche digitali è stato ridescritto totalmente. Ma non si è liberato. Anzi. Il passaggio che abbiamo vissuto nell’ultimo ventennio del secolo scorso è stato quello della evoluzione del processo tayloristico. Per trent’anni, a sinistra, abbiamo discusso se la fabbrica fosse terminata, finita oppure no. Molti hanno chiamato queste nostre società post-industriali quando, in realtà, la nuova forma industriale che si stava generalizzando, in modo ancora più pervasivo di quanto non avesse fatto quella del periodo fordista, conquistava anche le forme più relazionali della vita. Io ho chiamato questa trasformazione, il passaggio dal taylorismo fordista al taylorismo digitale.
Il taylorismo digitale, sottomissione della persona alle necessità del ciclo produttivo
Il taylorismo digitale è la teoria della nuova forma del taylorismo conseguente le innovazioni introdotte nella organizzazione del lavoro dalle tecniche digitali. Il primo cambiamento avvenuto è che le forme del taylorismo – cioè la parcellizzazione, la cooperazione e il controllo del ciclo produttivo – vengono portati alle loro estreme conseguenze. Per quello che è possibile si smaterializzano all’interno del software diventando così come “neutre”, al punto che il sottostare alle logiche del processo produttivo appare come un dato naturale. La sottomissione della persona alle necessità del ciclo produttivo, del sistema macchinico al quale è sottoposto nella produzione diviene non solo molto più estesa, ma in qualche modo più “oggettiva”. È come se le persone fossero spinte ad adeguarsi alle performance richieste dalla produzione ancor più che in passato, con una riduzione sia di capacità critica sia di possibilità rivendicativa. Una situazione sicuramente peggiore dal punto di vista dell’autonomia individuale e umana.
La qualità tecnologica del digitale è diversa da quella di altre tecnologie umane perché interviene sul processo comunicativo, sul processo di scambio e valutativo dell’informazione. Le tecnologie digitali sono tecnologie relazionali e mutano le forme delle relazioni umane, arrivando a ridescrivere addirittura le forme delle strutture cognitive degli individui. Per dirla con un’affermazione, le forme dei processi sociali di relazione (tra gli individui e i gruppi) e le forme dei processi produttivi (a prescindere dalle vecchie divisioni della prima era industriale pre-digitale) tendono a coincidere. Man mano che il digitale estende la sua presenza nel corpo della società, le forme sociali e le forme produttive sempre più simili.
Oggi tendono a coincidere la forma del lavoro e quella del tempo libero
Diciamo che il lavoratore di oggi non vive la percezione del processo di alienazione come accadeva in passato. Prima la differenza tra le 8 ore in fabbrica e le 8 ore di vita era totale. Oggi la forma del lavoro e quella del tempo libero tende a coincidere. Si producono e controllano le relazioni con i nostri amici esattamente come si produce e si controlla la macchina che produce o il servizio che si genera. Tutto passa per un device che ci interfaccia con la cosa che dobbiamo fare, la relazione che dobbiamo curare. Si tratta di un processo che ha mantenuto, anzi esteso, il controllo del potere preesistente. Il punto di comando che dirigeva i processi politici e sociali si è rafforzato.
Il taylorismo digitale oltre ad essere più pervasivo di quello esistente nella fase meccanica, ha indebolito le strutture difensive che il movimento operaio si era conquistato con lotte faticose. Con una risposta breve potrei dire solo, si. Ma in realtà le cose non stanno semplicemente così. I processi, per fortuna o per sfortuna, sono sempre più complessi. Da un lato si è diffusa una vulgata, anche a sinistra, che afferma che la fase che stiamo vivendo sia un semplice “arretramento” rispetto alle conquiste del secolo scorso.
La storia non torna mai indietro. Nuove potenzialità di conflitto
Ma non è così. La storia non torna mai indietro, anche quando le sconfitte segnano dei punti di non ritorno. Lo sfruttamento dell’era digitale non è quello dell’era meccanica. Può essere anche più pervasivo e totalizzante, e necessita di una critica e di un conflitto di nuova generazione, ma apre a potenzialità nuove sia di conflitto di tipo classico, sia in forme di riorganizzazione della vita, della produzione, delle relazioni che nel secolo scorso potevamo tenere nella sfera dell’utopia. Ma per fare questo c’è bisogno di saper guardare oltre quello che immaginavamo ieri. Chi pensa di riproporre gli schemi che hanno funzionato un secolo fa è come se, all’inizio del ‘900, qualcuno avesse proposto un processo di liberazione e modalità di conflitto utili nell’era dello schiavismo. Era nel giusto, dal punto di vista del principio, ma totalmente fuori tempo massimo per i processi che il capitalismo aveva generato.
*Sergio Bellucci Presidente associazione Net Left
1) continua