In queste ore, dall’altra parte dell’Atlantico, il nuovo presidente degli Stati Uniti fa cadere il velo sulla natura degli interessi nazionali e globali della principale superpotenza mondiale. Da questa parte dell’Atlantico, i movimenti populisti si mobilitano sull’onda di un presunto slancio dato loro dalla vittoria di Trump e nel pieno di una crisi della stessa idea d’Europa. La costruzione tecnocratica delle istituzioni europee, non arginata dalla elezione diretta del Presidente del Parlamento Europeo che, alla prima occasione, è stata contraddetta dalle dimissioni del stesso Presidente eletto senza un perché, senza una giustificazione e per logiche tutte interne allo scontro politico nazionale tedesco. Le regole della finanza con le quali si identifica ormai la percezione dell’Unione Europea – disavanzo di bilancio, debito pubblico, moneta unica, ma anche dumping sociale, caos fiscale, incapacità d’accoglienza – rendono impossibile pensare che l’argine alle derive populiste sia in grado di resistere. Né servono richiami sterili ad una idea di Europa di forze politiche che stanno perdendo la capacità di interpretare la necessità di un orizzonte di senso, un orizzonte che non sia incarnato da quelle regole della finanza che stanno facendo crollare tutta l’impalcatura.
Con la caduta dell’idea di Europa cade il sogno di una società che possa pensare anche agli ultimi, ad una comunità che doveva avere al centro l’idea di costruire “diritti umani per le persone” e non “spazi economici di consumo per dei compratori”. L’Europa avrebbe dovuto essere qualcosa di diverso di una serie di regole economiche e finanziarie. Doveva e voleva indicare, all’umanità tutta, la possibilità di archiviare dalla Storia l’idea della guerra come forma delle “relazioni” tra i popoli e la possibilità di costruire sull’accoglienza delle differenze la ricchezza sociale di tutti.
In questo lavoro di distruzione, tutti sembrano in campo. Populisti rinvigoriti, tecnocrati incalliti, politici sbiaditi. Tutti, consapevolmente o inconsapevolmente, lavorano alla distruzione di una ipotesi politica alta, sull’altare del rispetto degli interessi che si vorrebbero garantire: quelli dei singoli popoli nazionali, come se dall’impoverimento dell’altro risieda la possibilità di ricchezza di chi si pensa di rappresentare; quelli della finanza, pensando che la salvaguardia della moneta e dei suoi equilibri, sia capace di prodursi sulla povertà del 99% della popolazione; quelli di una politica che ha perso la capacità di volare indicando orizzonti alti da conquistare ripiegandosi sulla semplice amministrazione dell’esistente.
Un soggetto sembra essere totalmente all’angolo, in panchina, come se il suo “allenatore” si fosse dimenticato della sua forza, della sua totale alterità di interessi rispetto a quelli in campo e si fosse arreso all’idea di una sconfitta generale. E, invece, sarebbe questo il momento di far scendere in campo l’unico soggetto in grado di ribaltare un esito che sembra scontato. Certo ci sarebbe bisogno di sapergli indicare obiettivi certi da conquistare, obiettivi in grado di ricompattare il suo fronte e di indicare un orizzonte “altro” rispetto alla “deriva del sistema”. Una proposta che sia “altra” e praticabile. Sarebbe ora che il movimento dei lavoratori tornasse a calcare le piazze, indicare obiettivi per una Europa che sappia rimettere in campo il lavoro e la sua dignità come centrali. Che sappia costruire il filo rosso che in grado di coniugare gli interessi degli occupati con quelli dei precari, dei disoccupati. Che sappia innovare nella stessa idea di lavoro e sappia contrattare per tutte le nuove soggettività. Che rivendichi un orizzonte più avanzato rispetto alla Bolkestein. Che sappia coniugare la lotta per una forte redistribuzione del lavoro in Europa, con una generalizzata e radicale riduzione di orario. Che sappia indicare, per fare un esempio innovativo e anche per togliere armi ai populisti, in cambio della riduzione di orario e della redistribuzione del lavoro, una politica di dazi europei che riequilibri il costo verso i paesi che non riducono l’orario in maniera paritaria. Questo è un “muro” comprensibile e giusto, in grado di indicare, non solo all’Europa, un salto quantico nei rapporti di forza sociali. Un mondo del lavoro che chieda di contrattare, ora e in maniera rilevante, lo tsunami che si sta producendo nell’incrocio tra “robotizzazione e Intelligenza artificiale”. Che sappia criticare gli incentivi pubblici verso l’introduzione di una nuova fase di automazione – tutti i fondi pubblici per quella che viene chiamata “Industria 4.0” -, senza che tale utilizzo di risorse pubblico abbia delle contropartite sociali in termini di occupazione, diritti, riduzioni d’orario. Una piattaforma che sappia piegare le potenzialità della Sharing economy a logiche sociali, con lo sviluppo di piattaforme pubbliche, locali, decentrate, in grado di sviluppare servizi e produzioni de-mercificate, incentrate sul riuso, il recupero, il riciclo. Insomma, la capacità di interpretare la fase di vita nuova che il digitale apre e proporre una dimensione sindacale nuova, con rivendicazioni in sintonia con i processi in atto, e costruire alleanze sociali oggi impensabili proprio per la staticità del modello rivendicativo e contrattuale. Fino a proporre cripto-monete e capacità di scambio di lavori, in particolare i lavori di cura, basati sulle logiche dei sistemi blockchain. Una potenzialità del mondo del lavoro che va ben oltre le logiche del sistema attuale.
I lavoratori europei, proprio di fronte alla crisi verticale a cui siamo di fronte, dovrebbero essere chiamati, dalle loro rappresentanze sindacali, a rivendicare – ora e a prescindere dalle scadenze dei vari contratti nazionali – una sorta di “Preambolo Unico del Lavoro Europeo”, fatto di nuovi diritti, di tutele nuove e generalizzate, della richiesta di una convergenza del costo del lavoro che elimini le concorrenze interne tra lavoratori. Se la moneta unica sta impoverendo e dividendo, il lavoro deve diventare l’elemento di un nuovo modello di unificazione. CGIL, CISL e UIL dovrebbero avanzare alla CES, la Confederazione europea, e alle altre confederazioni nazionali, una piattaforma nuova e urgente.
In altre parole, una discesa sul terreno del confronto politico e sociale che costruisca un orizzonte di lotta in grado di rimettere in campo una forza sociale e una prospettiva politica, economica e sociale che sappia indicare una prospettiva diversa rispetto i populismi in campo. La sinistra politica troverebbe, improvvisamente, il modo di uscire dalla discussione sugli esiti tutti interni delle logiche finanziarie e dispiegare una politica in grado di svelare l’inconsistenza e la miopia dei populismo in campo.
In difesa la partita non si vince.