La sinistra e la rivoluzione digitale

"la digitalizzazione dell’economia è caratterizzata dall’uso di un nuovo input di produzione, l’informazione, con caratteristiche molto particolari: l’informazione è infinita e vuole essere libera, perché la sua riproduzione digitale comporta costi decrescenti che tendono allo zero. Questo pone un nuovo fronte per il benessere nel futuro. Per alcuni il compito di costruire piattaforme democratiche dell’informazione è quello principale per la sinistra nel XXI secolo, con un’importanza paragonabile alla costruzione dello stato sociale del XX secolo"

di MANUEL ESCUDERO* per www.ytali.com (da www.dire.it: http://www.dire.it/08-02-2017/104804-la-sinistra-la-rivoluzione-digitale/)

 

Come dice George Monbiot, sono ammirato da come i miliardari si riuniscano a Davos per ponderare saggiamente su che cosa potrebbe star causando tanti problemi al mondo … Ma, per quanto cinici, i maestri dell’establishment, pazzi non sono, e alle loro deliberazioni non sfuggono i fenomeni più importanti che ha di fronte il mondo. Sembra che quest’anno il tema dell’impatto dell’automazione sul mercato del lavoro stia emergendo come una delle principali preoccupazioni al centro del World Economic Forum (WEF).

Se non c’è fumo senza fuoco, sempre più vedremo questo tema al centro di dibattiti generali, globali e in Spagna. Vale quindi la pena riflettere sulla posizione della sinistra a proposito della rivoluzione digitale.

Visioni da sinistra

Si sente spesso dire a sinistra che la rivoluzione digitale sia un tema tecnologico, strano ed estraneo all’economia politica, e a cui dare solo un po’ (molto poco) d’attenzione programmatica. Credo, invece, che la digitalizzazione dell’economia avrà effetti talmente importanti che è auspicabile che la sinistra metta il futuro “nelle sua ossa” e agisca di conseguenza, da subito.

La scarsa attenzione ha a che fare, fondamentalmente, con il calcolo secondo cui la digitalizzazione avverrà in un futuro indefinito, con poche conseguenze a breve termine sull’occupazione e con un effetto neutro a lungo termine perché si continuano a generare altrettanti posti di lavoro, se non di più, di quelli distrutti.

La tesi della fine del lavoro dovuta alla rivoluzione digitale, quello che certi chiamano “determinismo tecnologico” – secondo l’argomento di coloro che non credono in essa -, è in fase di smantellamento sopraffatta da una mole enorme di evidenze scientifiche. Essi sostengono: se la rivoluzione tecnologica fosse stata una delle cause più importanti della distruzione di posti di lavoro negli Stati Uniti, avremmo anche dovuto vedere una notevole crescita della produttività in quel paese, e non è stato il caso.

La polemica sul paradosso della produttività

È indiscutibile che molti studiosi di varie tendenze nelle economie industrializzate si siano mostrati perplessi perché il rapido ritmo di innovazione tecnologia digitale non coincide con grandi incrementi di produttività. È vero che, in tale contesto, si è parlato di “paradosso della produttività”. Ma va notato che questo è un dibattito di ieri, degli ultimi due decenni del XX secolo, e su dati degli anni Settanta, il periodo in cui Robert Solow coniò la sua famosa frase: “Vediamo dappertutto computer tranne che nelle statistiche di produttività”.

La verità è che questa stagnazione è stata corretta dagli anni Novanta in poi Infatti, secondo l’US Bureau of Labor Statistics, la crescita della produttività è stata pari all’1,7 per cento, in media, tra il 1971 e il 1980, e all’1,5 tra il 1981 e il 1990. Ma è salita al 2,3 per cento nel periodo 1991-2000 e al 2,4 tra il 2001 e il 2010. In precedenza, a cavallo con il nuovo secolo, secondo le statistiche del Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti, nel periodo 1995-2004 la produttività è cresciuta il doppio della media degli ultimi due decenni: se nel periodo 1973-1995 la produttività è cresciuta dell’1.5 per cento, nel periodo 1995-2004 è cresciuta del 3,1.

Dovremmo quindi dire che il parlare di stagnazione della produttività come dimostrazione dello scarso impatto della digitalizzazione economica sulla distruzione dell’occupazione non è basato su dati empirici significativi.

Tuttavia, sorgono interrogativi che meritano di trovare risposta. In primo luogo, perché c’è stato un periodo (tra il 1970 e il 1995) in cui la rivoluzione digitale a mala pena si riflette in aumenti di produttività? In secondo luogo, sono incrementi di produttività intorno al tre per cento che ci si possa aspettare dalla rivoluzione digitale? Ciò detto, sono incrementi che non si discostano molto da quelli che si sono verificati negli anni Cinquanta o Sessanta del secolo scorso…

Per rispondere brevemente a entrambe le domande, la rappresentazione grafica che segue può dare risposte molto convincenti. Viene da un libro che considero fondamentale per affrontare la questione della importanza e degli effetti della rivoluzione digitale, The Second Machine Age di Eric Brynjolfsson e Anfrew McAfee:

In questo grafico, con una linea grigia spessa si evidenziano gli incrementi di produttività nell’epoca dell’elettrificazione (1890-1940); la sua scala temporale appare in asse orizzontale superiore. La più sottile linea nera corrisponde all’evoluzione della produttività nell’era della digitalizzazione, che si riflette temporalmente nell’asse orizzontale inferiore tra il 1970 e il 2012.

Richiama l’attenzione, in primo luogo, l’evoluzione molto simile della produttività nelle due epoche, tanto che le loro traiettorie di produttività quasi si sovrappongono nel loro sviluppo. È anche evidente in entrambi i casi che la produttività è cresciuta a poco a poco nel corso dei primi 25 anni dopo l’introduzione di nuove tecnologie, dopo di che il tasso di crescita è andato aumentando. Questo perché, come è ben documentato, stiamo parlando di General Purpose Technologies, tecnologie cardine che per dispiegare il loro sviluppo e acquisire il pieno potenziale hanno bisogno di diffondersi in tutto il tessuto produttivo e combinarsi con altri elementi esistenti. Questo spiegherebbe, in modo molto sintetico, perché nel nostro tempo l’introduzione di nuove tecnologie (digitalizzazione, microchip e Internet) non ha ottenuto, nei primi decenni, gli effetti immediati che molti s’aspettavano.

In secondo luogo, si può vedere nel grafico l’evoluzione della produttività nell’era dell’elettrificazione a partire dal 1930, quando la capacità trasversale dell’energia elettrica e il suo combinato con il motore a combustione interna hanno raggiunto l’apice, con un’accelerazione della produttività. Sembra logico che qualcosa di analogo, dopo percorsi molto paralleli, avverrà nei prossimi decenni con la digitalizzazione economica. C’è anzi da aspettarsi un ancora maggiore accelerazione dalla natura esponenziale della digitalizzazione.

È curioso che gli studi relativi al “paradosso della produttività” si riferiscano alla digitalizzazione in modo generico (l’impatto dei computer). Tuttavia, va notato che la digitalizzazione dell’economia contiene molti fenomeni, e che ora iniziano a combinarsi con straordinaria rapidità. Lo illustra bene il diagramma seguente del WEF.

Le tecnologie di digitalizzazione sono state definite con tre attributi: esponenziale, trasversale e combinatorio. Lo sviluppo esponenziale è evidente. A esempio, nel caso dei microchip e specialmente dei personal computer e dei telefoni intelligenti. La trasversalità, penetrando praticamente in tutte le attività di produzione e i servizi e trasformando sempre più settori, è un’altra evidenza per chiunque studi ciò che sta accadendo nelle telecomunicazioni, nelle banche, nei settori dell’auto, dell’energia, ecc… E a proposito delle proprietà combinatorie – il che significa produzione di nuovi prodotti o servizi digitali combinando tra loro quelli esistenti – esse stanno diventando la norma e questo schema continuerà nel futuro: l’esempio più importante è l’Internet delle cose che comincia a combinare tra loro giocattoli, vestiti, accessori, reti di trasporto, alloggio, ecc… e ora inizia a svilupparsi anche in modo esponenziale.

La digitalizzazione dell’economia distrugge più posti di lavoro di quanti ne crei?

Affrontato l’argomento del “paradosso della produttività”, andiamo al cuore dell’obiezione secondo cui le tecnologie digitali non distruggono più posti di lavoro di quanti siano creati in altri settori dell’economia. Per rispondere di nuovo brevemente, ecco l’evoluzione della produttività e dell’occupazione negli ultimi anni negli Stati Uniti.


Ci troveremo di fronte a una grande sorpresa: dall’inizio del 2000 si produce una mancata corrispondenza tra la crescita della produttività del lavoro, che continua ad aumentare, e la crescita dell’occupazione, che ristagna e retrocede – prima della grande recessione.

La sorpresa sarà ancora maggiore se proiettiamo questa serie a ritroso nel corso degli ultimi duecent’anni. Allora vedremmo che il disaccoppiamento non è mai stato così accentuato come ora.

La tesi dominante a sinistra, che condivido, è che il modello neoliberista ha portato alla distruzione del potere organizzato dei lavoratori e, con la diffusione di salari permanentemente verso il basso, alla riduzione della massa salariale e del reddito delle classi lavoratrici e, in ultima analisi, all’emergere del precariato. Ma questa realtà politica, che contempla un abbassamento della produttività e una crescita del lavoro precario, non può impedire che la produttività in virtù della digitalizzazione dell’economia cresca e che l’occupazione sia distrutta (non lo dicono le statistiche sull’occupazione, ma la popolazione attiva, che è quello che sta accadendo negli Stati Uniti)

L’unica spiegazione possibile è che entrambe le realtà, il modello neoliberista e gli effetti della digitalizzazione dell’economia, non si escludono a vicenda, ma sono fenomeni complementari: Oggi ci stiamo dirigendo verso una società in cui, al tempo stesso, una parte significativa dei lavoratori è precaria e un’altra parte importante è di disoccupati tecnologici.

Le stime attuali sull’impatto dell’economia digitale sul lavoro salariato

Vediamo adesso diverse valutazioni degli effetti della digitalizzazione economica sul lavoro nel futuro immediato.

a) Secondo il rapporto del WEF The Future of Jobs, la cosiddetta Quarta Rivoluzione Industriale comporterà spostamenti di posti di lavoro in “tutti i settori e aree geografiche.” Via via che la robotica, le nanotecnologie, la stampa 3D e la tecnologia automatica inizieranno ad andare a regime, andranno persi 7,1 milioni di posti di lavoro netti nelle quindici principali economie sviluppate ed emergenti (tra cui Regno Unito, Stati Uniti, Giappone, India e Cina) entro il 2020. Secondo il rapporto, la maggior parte della perdita di posti di lavoro avverrà in campo amministrativo, nelle funzioni burocratiche e di ufficio. Tuttavia, queste perdite saranno parzialmente compensate da due milioni di nuovi posti di lavoro previsti, con una maggiore domanda di analisti di dati e rappresentanti di vendita specializzati. Gli uomini saranno in proporzione i più colpiti dall’automazione, con cinque posti di lavoro persi per ogni posto di lavoro creato. Le donne, invece, possono perdere tre posti di lavoro per ogni nuovo posto di lavoro creato

b) L’Institute for Public Policy Reasearch (IPPR), con sede a Londra, ha previsto lo scorso dicembre che il passaggio a una tecnologia software-driven metterebbe quindici milioni di posti di lavoro nel Regno Unito – due su tre  – “a rischio” nel corso dei prossimi due decenni. Tra i più colpiti sono i dipendenti nella vendita al dettaglio, con la perdita prevista di due milioni di posti di lavoro entro il 2030 (sessanta per cento del totale attuale) e nell’industria manifatturiera, con la perdita prevista di 600.000 posti di lavoro nello stesso periodo.

c) Un rapporto esecutivo del dicembre 2016 pubblicato dalla Casa Bianca cita l’ormai famosa ricerca accademica di Carl Frey e Michael Osborne, secondo la quale fino al 47 per cento dei posti di lavoro degli Stati Uniti potrebbe essere a rischio nel corso dei prossimi dieci-vent’anni a causa dell’intelligenza artificiale e dell’informatizzazione. Tuttavia, considerando che alcune di queste professioni sono costituite da mansioni di routine e non di routine, la forbice dei posti di lavoro a rischio è tra il 9 e il 47 per cento.

Inoltre, si prevede che l’impatto dell’automazione colpirà in misura sproporzionata i più poveri, ponendo l’automazione a repentaglio, si stima,l’83 per cento dei posti di lavoro con salario pari o inferiore ai venti dollari all’ora. Ciò a fronte del 31 per cento di posti di lavoro il cui stipendio è tra i venti e i quaranta dollari all’ora, e un mero quattro per cento dei posti di lavoro che rendono più di quaranta dollari all’ora.
In realtà, solo l’un per cento di coloro che sono provvisti di diploma di laurea lavorano in impieghi le cui mansioni sono “altamente automatizzabili”, rispetto al 44 per cento dei lavoratori statunitensi provvisti solo di diploma di scuola superiore.

In conclusione, dovrebbe realizzarsi l’ipotesi più probabile, cioè che già nel breve periodo inizieremo a sentire le conseguenze della disoccupazione tecnologica e che l’effetto netto della perdita di posti di lavoro a causa dell’automazione, andrà aumentando nel corso del tempo.

L’impatto dell’economia digitale e gli effetti perversi della sua negazione

Queste sono riflessioni basate su dati. Tuttavia, peggio che adottare una posizione sprezzante nei confronti della rivoluzione digitale e suoi effetti sul lavoro è chiudere le porte a molte questioni cruciali che dovrebbero far parte dell’agenda della sinistra.

Si è trascurato molte volte il fatto che, diversamente dalla prima rivoluzione industriale (innescata dalla macchina a vapore) e la seconda (iniziata con l’elettrificazione), la digitalizzazione dell’economia è caratterizzata dall’uso di un nuovo input di produzione, l’informazione, con caratteristiche molto particolari: l’informazione è infinita e vuole essere libera, perché la sua riproduzione digitale comporta costi decrescenti che tendono allo zero. Questo pone un nuovo fronte per il benessere nel futuro. Per alcuni il compito di costruire piattaforme democratiche dell’informazione è quello principale per la sinistra nel XXI secolo, con un’importanza paragonabile alla costruzione dello stato sociale del XX secolo (IPPR).

Ma tornando all’impatto della digitalizzazione sul lavoro salariato, nella misura in cui l’economia digitale penetra nel tessuto economico, distrugge la necessità del lavoro salariato nel mercato capitalista. Naturalmente è una sciocchezza dire che il lavoro scomparirà, perché gli esseri umani continueranno a lavorare, usando la creatività per produrre valore sociale. Ma non ha senso negare che l’economia digitale si sviluppa a prescindere da una quantità crescente di lavoro salariato.

Ma anche nelle società sviluppate importanti cominciano a vedersi segmenti importanti di cittadini che combinano lavori part-time con nuove forme di attività socialmente utili, oppure optano per nuove attività che poco hanno a che fare con il capitalismo: Wikipedia, Creative Commons, il software libero e le nuove iniziative decentrate di economia della condivisione, sociale e solidale sono, forse, l’embrione di una diversa modalità di produzione, alternativa al capitalismo. Questa è una tesi forte che, se confermata, apre alla possibilità di una transizione verso un nuovo sistema di produzione: è da qui che si potrebbe individuare parte del nocciolo duro di un nuovo paradigma della sinistra.

Naturalmente, una delle più grandi sfide per stemperare lo shock e mantenere l’obiettivo di creare posti di lavoro anche nell’economia digitale, è la necessità di una rivoluzione copernicana nei sistemi d’istruzione e, nei paesi che invecchiano come la Spagna, la necessità di un sistema di formazione permanente.

Infine, solo se concediamo alla digitalizzazione dell’economia il rango di caratteristica saliente della nuova economia politica del XXI secolo, possiamo dare senso pieno a richieste politiche di giorno in giorno più importanti, come la necessità di ridurre l’orario di lavoro, anche sotto le trenta ore settimanali, o l’istituzione di un salario minimo universale, che solo in una prospettiva che tenga conto degli effetti dell’economia digitale può assumere il suo pieno significato.

Ed è in questo senso che io sostengo una forma di salario di cittadinanza che inizi a plasmarsi strutturalmente nel sistema fiscale, sotto forma di una imposta negativa sul reddito per coloro il cui reddito è al livello della soglia di povertà. Una tassazione negativa che può via via avere l’ambizione di essere generalizzata come una forma di reddito a cui accedono coloro che non sono più nel mercato capitalista, ma eseguono mansioni di utilità famigliare, sociale, creativa, per la comunità.

Relazione presentata al Foro de Economía Progresista, 19 gennaio 2017 e pubblicata da CTXT

traduzione di G. M.