L’era del postcapitalismo

La tecnologia ha introdotto modi di lavorare e consumare che mettono in discussione il sistema economico basato sulla legge della domanda e dell’offerta. Tempo libero, attività in rete e gratuità saranno la moneta di scambio del futuro

(di Paul Mason, giornalista economico britannico che lavora per la rete tv Channel 4. Questo articolo è tratto da Internazionale/The Guardian ed è estratto dal suo ultimo libro Postcapitalism (Allen Lane 2015), che sarà pubblicato in Italia nel 2016 da Il Saggiatore)


Durante la crisi greca le bandiere rosse e gli slogan di Syriza, insieme alla prospettiva di nazionalizzare le banche, hanno riportato brevemente in vita un sogno novecentesco: distruggere il mercato dall’alto.

Per gran parte del ventesimo secolo, la sinistra ha immaginato così la prima fase dell’economia dopo il capitalismo: la classe operaia avrebbe agito con la forza, nelle urne o sulle barricate, usando lo stato come leva e cogliendo l’occasione offerta dalle frequenti crisi economiche.

Negli ultimi venticinque anni, invece, è stato il progetto della sinistra ad andare in crisi. L’individualismo ha preso il posto del collettivismo e della solidarietà, mentre la forza lavoro mondiale, cresciuta a dismisura, somiglia a un proletariato, ma non ragiona né si comporta più come un tempo.

Per chi ha vissuto tutto questo e non ama il capitalismo è stato un trauma. Nel frattempo, però, la tecnologia ha creato una nuova via d’uscita. Quello che resta della vecchia sinistra – e tutte le forze che ne sono state influenzate – si trova di fronte a una scelta: imboccare questa strada o morire.

Il capitalismo non sarà abolito con una marcia a tappe forzate, ma grazie alla creazione di qualcosa di più dinamico, che inizialmente prenderà forma all’interno del vecchio sistema, passando quasi inosservato, ma che alla fine aprirà una breccia, ricostruendo l’economia intorno a nuovi valori e comportamenti.

Lo chiameremo postcapitalismo.

Come cinquecento anni fa con la fine del feudalesimo, l’avvicendamento tra capitalismo e postcapitalismo sarà accelerato da una serie di eventi esterni e modellato dalla comparsa di un nuovo tipo di essere umano.

Il processo è già cominciato. E si deve a tre grandi cambiamenti introdotti dall’informatica negli ultimi venticinque anni.

In primo luogo, le tecnologie informatiche hanno ridotto il bisogno di lavoro, rendendo meno netto il confine tra lavoro e tempo libero e meno stringente il rapporto tra lavoro e salario. La prossima ondata di automazione, attualmente ferma perché le nostre strutture sociali non sono in grado di sopportarne le conseguenze, farà diminuire enormemente la quantità di lavoro necessaria non solo per la sussistenza, ma anche per garantire una vita dignitosa a tutti.

In secondo luogo, l’informazione sta erodendo la capacità del mercato di determinare i prezzi in modo corretto. I mercati si basano sulla scarsità, mentre l’informazione è abbondante. Il meccanismo di difesa del sistema è formare monopoli – le grandi multinazionali tecnologiche di oggi – su una scala che non ha precedenti negli ultimi duecento anni. Ma tutto questo non può durare.

Basando il loro modello d’impresa e il suo successo sull’acquisizione e la privatizzazione delle informazioni prodotte dalla società, le aziende tecnologiche stanno costruendo un edificio fragile, che contrasta con il bisogno fondamentale dell’umanità: usare le idee liberamente.

Terzo, stiamo assistendo a una crescita spontanea della produzione condivisa: nascono beni, servizi e organizzazioni che non rispondono più ai principi del mercato e della gerarchia manageriale.

Il più grande fornitore di informazioni al mondo, Wikipedia, è un sito realizzato gratuitamente da una rete di volontari, che hanno fatto crollare il mercato delle enciclopedie e sottratto al settore pubblicitario un fatturato stimato di tre miliardi di dollari all’anno. Quasi inosservati, nelle nicchie e negli angoli più nascosti del sistema di mercato, interi settori economici stanno cominciando a prendere un’altra strada. Monete parallele, banche del tempo, cooperative e spazi autogestiti sono spuntati come funghi (notati a malapena dai professionisti dell’economia), spesso come effetto diretto della frantumazione delle vecchie strutture prodotta dalla crisi del 2008. Per trovare questa nuova economia bisogna cercarla bene. In Grecia un’ong locale ha fatto una mappa delle cooperative, dei produttori alternativi, delle monete parallele e dei sistemi di scambio locali del paese scoprendo più di settanta progetti attivi e centinaia di iniziative più piccole, dalle case occupate al carpooling (la condivisone delle auto private) fino agli asili gratuiti.

Per gli economisti tradizionali queste cose non vanno neanche considerate parte dell’attività economica, ma il punto è proprio questo. Queste cose esistono perché, anche se in modo ancora incerto e inefficiente, commerciano nella moneta del postcapitalismo: tempo libero, attività in rete e gratuità. Può sembrare una base esile, poco istituzionale e persino pericolosa su cui costruire un’alternativa al sistema globale, ma lo stesso si poteva dire della moneta e del credito all’epoca di Edoardo III.

Nuove forme di proprietà, nuove forme di prestito, nuovi contratti: negli ultimi dieci anni è nata una nuova sottocultura d’impresa che i mezzi d’informazione hanno chiamato sharing economy, economia della condivisione.

Si sentono dovunque termini come “beni comuni” e “produzione peer to peer”, ma pochi si sono chiesti cosa comportano questi nuovi sviluppi per il capitalismo.

Penso che questi microprogetti offrano una via d’uscita, ma solo se saranno coltivati, promossi e tutelati attraverso un cambiamento radicale dell’attività dei governi.

Tutto questo potrà cominciare solo con un nuovo modo di concepire la tecnologia, la proprietà e il lavoro. A quel punto, quando creeremo gli elementi del nuovo sistema, potremo dire a noi stessi e agli altri: “Questo non è più solo il mio meccanismo di sopravvivenza, il mio rifugio dal mondo neoliberista, ma un nuovo modo di vivere in via di formazione”.

Fase depressiva

La crisi del 2008 ha cancellato il 13 per cento della produzione e il 20 per cento del commercio mondiale. La crescita globale si è fermata, in un contesto in cui ogni aumento inferiore al 3 per cento è considerato recessione. In occidente la crisi ha causato una fase depressiva più lunga di quella del 1929-1933, e ancora oggi, nel mezzo di una pallida ripresa, gli economisti tradizionali tremano di fronte alla prospettiva di una stagnazione a lungo termine.

In Europa le scosse di assestamento rischiano di disgregare il continente.

Le soluzioni sono state un misto di austerità e politiche monetarie espansive, ma non stanno funzionando. Nei paesi più colpiti dalla crisi è stato demolito il sistema pensionistico, l’età della pensione è stata innalzata a 70 anni e l’istruzione è stata privatizzata, costringendo di fatto gli universitari a indebitarsi per tutta la vita.

Sono stati smantellati i servizi pubblici e bloccati i progetti infrastrutturali.

Ancora oggi molte persone non capiscono il vero significato di “austerità”.

Questa parola non significa otto anni di tagli alla spesa, come nel Regno Unito, e nemmeno la catastrofe sociale imposta alla Grecia.

Significa spingere al ribasso i salari e gli standard di vita occidentali per decenni, finché non si saranno allineati con quelli, in crescita, delle classi medie cinese e indiana.

Intanto, in mancanza di un modello alternativo, si stanno creando le condizioni per una nuova crisi. In Giappone, nel sud dell’eurozona, negli Stati Uniti e nel Regno Unito i salari reali sono scesi o ristagnano. Il sistema bancario ombra (gli istituti che operano fuori dai circuiti regolamentati) è stato rimesso in piedi e oggi è più grande rispetto al 2008. Le regole sull’aumento delle riserve bancarie sono state annacquate

o rimandate. Nel frattempo l’1 per cento più ricco della popolazione, inondato di liquidità gratuita, è diventato ancora più ricco.

Il neoliberismo, quindi, è diventato un sistema fatto apposta per provocare fallimenti catastrofici ricorrenti. E, cosa ancora più grave, ha interrotto lo schema ciclico del capitalismo industriale, in cui ogni crisi stimolava nuove forme di innovazione tecnologica che favorivano tutti.

Il neoliberismo è il primo modello economico in duecento anni la cui fase espansiva si fonda sulla premessa della compressione dei salari e sulla distruzione del potere sociale e della capacità di resistenza della classe operaia. Ripercorrendo i periodi di crescita studiati dai teorici del ciclo lungo – gli anni cinquanta dell’ottocento in Europa, il primo decennio e gli anni cinquanta del novecento in tutto il mondo – si scopre che è stata la forza della manodopera organizzata a costringere gli imprenditori e le aziende a smettere di rilanciare modelli d’impresa superati attraverso il taglio dei salari e a creare una nuova forma di capitalismo facendo leva sull’innovazione.

Il risultato è che ogni fase espansiva è una sintesi di automazione, salari più alti e consumi di beni e servizi più pregiati. Ma oggi non ci sono pressioni da parte della forza lavoro, e la tecnologia al centro di quest’innovazione non richiede una maggiore spesa in consumi né il reimpiego della vecchia manodopera. L’informatica è una macchina che spinge al ribasso il prezzo di beni e servizi e riduce drasticamente il tempo di lavoro necessario per mandare avanti la vita sul pianeta.

Di conseguenza, molti imprenditori sono diventati neo-luddisti. Invece di creare laboratori per il sequenziamento dei geni, aprono cafè, saloni per la manicure e imprese di pulizie: il sistema bancario, la programmazione economica e la cultura neoliberista premiano soprattutto chi crea posti di lavoro di basso valore e con orari lavorativi lunghi.

L’innovazione c’è, ma finora non ha fatto scattare la quinta fase ascendente del capitalismo prevista dalla teoria del ciclo lungo. I motivi vanno ricercati nella natura delle tecnologie informatiche.

Una macchina intelligente

Siamo circondati non solo da macchine intelligenti, ma da un nuovo “strato” della realtà basato sull’informazione.

Prendiamo un aereo di linea: vola grazie a un computer, è stato progettato, provato e “costruito virtualmente” milioni di volte, e fornisce in tempo reale informazioni ai suoi costruttori.

A bordo ci sono persone con gli occhi issi su schermi che, in alcuni paesi fortunati, sono collegati a internet. Visto da terra è lo stesso uccello bianco di metallo dell’epoca di James Bond. In realtà è sia una macchina intelligente sia il nodo di una rete. Ha un contenuto informativo e aggiunge “valore informativo” – oltre che fisico – al mondo. Su un volo commerciale affollato, dove i passeggeri sbirciano Excel o Powerpoint, la cabina somiglia molto a una fabbrica di informazioni.

Ma quanto valgono tutte queste informazioni?

La risposta non si trova nei bilanci: nella contabilità la valorizzazione della proprietà intellettuale è affidata alle congetture.

Secondo uno studio del 2013 commissionato dal Sas institute, è impossibile calcolare adeguatamente quanto costa raccogliere i dati e qual è il loro valore di mercato o il reddito che potranno produrre. Solo una particolare forma di contabilità che comprende i vantaggi (e i rischi) non economici consente alle aziende di spiegare agli azionisti il valore dei dati.

Qualcosa non torna nella logica che usiamo per valutare la cosa più importante del mondo attuale.

Il grande progresso tecnologico di quest’inizio del ventunesimo secolo non è fatto solo di nuovi oggetti e processi, ma anche di vecchi oggetti e processi diventati intelligenti. Il contenuto di conoscenza dei prodotti sta acquistando più valore degli oggetti materiali usati per produrli. Ma è una ricchezza che si misura in termini di utilità, non in termini di valore di scambio o patrimoniale. Negli anni novanta gli economisti e gli esperti di tecnologia si sono accorti che questo nuovo ruolo dell’informazione stava dando vita a un nuovo, “terzo” tipo di capitalismo, diverso da quello industriale, proprio come il capitalismo industriale era diverso da quello mercantile e schiavista del seicento e del settecento. Nessuno di loro, però, è riuscito a descrivere le dinamiche del nuovo capitalismo “cognitivo”.

E c’è un motivo: queste dinamiche sono profondamente “non capitalistiche”.

Durante e subito dopo la seconda guerra mondiale gli economisti consideravano l’informazione semplicemente un bene pubblico. Il governo degli Stati Uniti aveva addirittura stabilito che non si dovesse ricavare alcun profitto dai brevetti, ma solo dai processi di produzione. Poi si è cominciato a capire qualcosa di più sulla proprietà intellettuale.

Nel 1962 Kenneth Arrow, guru del pensiero economico allora dominante, disse che in un’economia di libero mercato lo scopo dell’invenzione era creare diritti di proprietà intellettuale: “Un prodotto ha successo proprio nella misura in cui c’è un sottoutilizzo delle informazioni” (cioè le informazioni sono nelle mani di pochi). Si può riscontrare questo elemento in tutti i modelli di impresa online finora concepiti: monopolizzare e proteggere i dati, acquisire i dati sociali prodotti gratuitamente dall’interazione degli utenti, spingere le forze commerciali in settori della produzione di dati che prima erano considerati non commerciali, estrapolare valore predittivo dai dati esistenti e soprattutto fare in modo che l’azienda sia sempre e comunque l’unica a poter usare dei risultati.

Se rovesciamo il principio di Arrow, le sue implicazioni rivoluzionarie sono ovvie:

se un’economia di libero mercato a cui si aggiunge la proprietà intellettuale porta a un “sottoutilizzo delle informazioni”, allora un’economia basata sul pieno utilizzo delle informazioni non può tollerare il libero mercato o il diritto assoluto di proprietà intellettuale. Il modello d’impresa di tutti gli attuali colossi digitali è congegnato per impedire l’abbondanza delle informazioni.

Ma le informazioni sono comunque abbondanti. Il bene informazione è liberamente riproducibile.

Una volta creato, può essere copiato e incollato all’infinito.

Un brano musicale o il database usato per costruire un aereo di linea hanno un costo di produzione, ma il loro costo di riproduzione è vicino allo zero. Quindi, se con il tempo prevale il normale meccanismo dei prezzi del capitalismo, anche il loro prezzo tenderà allo zero.

Negli ultimi venticinque anni la scienza economica si è confrontata con questo problema: le teorie economiche convenzionali partono da una condizione di scarsità, eppure la forza più dinamica del mondo contemporaneo è abbondante e, come disse una volta il genio hippy Stewart Brand, “vuole essere libera”. Accanto al mondo del monopolio e del controllo delle informazioni creato dalle aziende e dai governi, sta

emergendo un’altra dinamica, in cui l’informazione è un bene sociale, che si può usare liberamente e non può essere posseduta né sfruttata né avere un prezzo. Sono andato a rivedere tutti i tentativi degli economisti e dei guru aziendali di costruire una cornice di riferimento per capire le dinamiche di un’economia basata su informazioni abbondanti e socialmente condivise. In realtà l’aveva già immaginata un economista dell’ottocento all’epoca del telegrafo e del motore a vapore. Il suo nome era Karl Marx.

Il frammento di Marx

La scena si svolge a Londra, a Kentish Town. È un mattino di febbraio del 1858, verso le quattro. Marx è ricercato in Germania e sta lavorando duramente su una serie di esperimenti mentali e appunti personali.

Quando finalmente leggeranno quello che sta scrivendo stanotte, gli intellettuali di sinistra degli anni sessanta del novecento saranno costretti a riconoscere che “mette in discussione tutte le più serie interpretazioni di Marx finora concepite”. Stiamo parlando del “Frammento sulle macchine”. In questo testo Marx immagina un’economia in cui il ruolo principale delle macchine è produrre, e il ruolo principale dell’uomo è tenerle sotto controllo. La principale forza produttiva è l’informazione. La capacità produttiva di macchine come il telaio automatizzato e la locomotiva a vapore non dipende dalla quantità di lavoro necessaria per produrle, ma dallo stato della conoscenza sociale. In altre parole, organizzazione e conoscenza danno un contributo maggiore alla capacità produttiva rispetto al lavoro necessario per costruire e far funzionare le macchine.

Considerato quello che sarebbe diventato il marxismo – una teoria dello sfruttamento basato sul furto del tempo di lavoro – si tratta di un’afermazione rivoluzionaria.

Implica che quando la conoscenza diventa una forza produttiva in sé e diventa più importante del lavoro materiale impiegato per costruire una macchina, la questione centrale non è più “salari contro profitti”, ma chi controlla quello che Marx chiama il “potere della conoscenza”.

In un’economia dove le macchine svolgono gran parte del lavoro, la natura della conoscenza insita nelle macchine dev’essere “sociale”, scrive Marx. In un ultimo esperimento mentale a notte fonda Marx immagina il punto finale di questa parabola: la creazione di una “macchina ideale” che dura per sempre e non costa niente. Una macchina che può essere costruita per niente, scrive Marx, non aggiunge alcun valore al processo di produzione e nel giro di pochi intervalli contabili riduce il prezzo, il profitto e il costo del lavoro di tutto quello che tocca.

Una volta preso atto che l’informazione è materiale, che il software è una macchina e che i prezzi delle capacità di memoria, della larghezza di banda e dell’elaborazione dei dati stanno crollando in modo esponenziale, il valore del pensiero di Marx diventa chiaro. Siamo circondati da macchine che non costano niente e che, se volessimo, potrebbero durare per sempre.

In queste riflessioni, rimaste inedite fino alla metà del novecento, Marx immagina un lusso di informazioni archiviate e condivise all’interno di un “intelletto generale”, una sorta di mente collettiva collegata attraverso la conoscenza sociale, in cui ogni progresso va a beneficio di tutti.

In breve, Marx immagina qualcosa di molto simile all’economia dell’informazione in cui viviamo E aggiunge che la sua venuta farà “saltare in aria il capitalismo”.

Lo scenario è cambiato, e la via oltre il capitalismo immaginata dalla sinistra del novecento è ormai perduta.

Ma si è aperta un’altra strada. La produzione condivisa, che sfrutta le tecnologie di rete per produrre beni e servizi in grado di funzionare solo quando sono gratuiti o condivisi, indica la via oltre il sistema di mercato. Sarà necessariamente lo stato a dover creare le condizioni, proprio come quando all’inizio dell’ottocento creò le condizioni per il lavoro in fabbrica, la moneta forte e il libero scambio. Con ogni probabilità l’economia postcapitalista coesisterà con l’economia di mercato ancora per qualche decennio, ma è in atto un grande cambiamento.

Le reti stanno restituendo “granularità” al progetto postcapitalista. Vale a dire che possono gettare le basi per un sistema non di mercato in grado di riprodursi, senza bisogno di essere ricreato ogni mattina sul monitor di un’autorità centrale.

Il processo di transizione investirà lo stato, il mercato e la produzione collaborativa postmercato. Ma perché questo succeda, l’intero progetto della sinistra, dai gruppi di protesta ai partiti moderati socialdemocratici e progressisti, dovrà essere ripensato da capo.

In realtà, una volta compresa la logica della transizione postcapitalista, queste idee non saranno più di proprietà della sinistra, ma di un movimento molto più ampio per il quale serviranno nuove definizioni. Chi può mettere in moto questo processo?

Nel vecchio progetto della sinistra era la classe operaia industriale. Più di duecento anni fa il giornalista rivoluzionario John Thelwall avvertì i proprietari delle fabbriche in Inghilterra che avevano creato una nuova e pericolosa forma di democrazia: “Ogni grande officina e manifattura è una sorta di società politica, che nessun atto del parlamento può far tacere e nessun magistrato può far sciogliere”.

Oggi l’intera società è una fabbrica. Tutti partecipiamo alla creazione e ricreazione dei marchi, delle norme e delle istituzioni che ci circondano. Allo stesso tempo le reti di comunicazione, vitali per il lavoro e il profitto quotidiano, vibrano di conoscenza e malcontento condivisi. Oggi è la rete – come l’officina di duecento anni fa – quella che “nessuno può far tacere o far sciogliere”.

Certo, in tempi di crisi gli stati possono chiudere Facebook, Twitter e perfino internet o l’intera rete mobile, paralizzando l’economia. E possono conservare e controllare ogni kilobyte di informazioni che produciamo. Ma non possono tornare a imporre la società gerarchica, propagandistica e ignorante di cinquant’anni fa, a meno di escludersi volontariamente da pezzi fondamentali della vita moderna, come succede in Cina, in Corea del Nord o in Iran. Come dice il sociologo Manuel Castells, sarebbe come provare a de-elettrificare un paese. Mettendo in rete milioni di persone, economicamente sfruttate ma con l’intera intelligenza umana a portata di dito, l’infocapitalismo ha creato un nuovo agente del cambiamento nella storia: l’essere umano istruito e connesso.

Le emergenze da affrontare

Non sarà solo una semplice transizione economica. Ci sono ovviamente delle emergenze da affrontare, come la dipendenza del pianeta dai combustibili fossili e la bomba a orologeria demografica e fiscale. Se mi sto concentrando sulla transizione economica avviata dall’informazione è perché finora se n’è parlato poco.

Il peer to peer è diventato un’ossessione di nicchia per innovatori idealisti, mentre i “pezzi da novanta” del pensiero economico di sinistra continuano a criticare l’austerità.

In realtà, in paesi come la Grecia la resistenza all’austerità e la creazione di “reti su cui è impossibile l’insolvenza” (per usare le parole di un’attivista) vanno a braccetto. E soprattutto, il postcapitalismo come concetto investe nuove forme di comportamento umano di cui l’economia convenzionale stenta a riconoscere l’importanza.

Proviamo a immaginare questa transizione.

L’unico parallelo storico calzante è il passaggio dal feudalesimo al capitalismo, e grazie al lavoro di epidemiologi, genetisti e analisti dei dati, sappiamo molto di più su quella transizione rispetto a cinquant’anni fa, quando era una “proprietà esclusiva” delle scienze sociali. Innanzitutto dobbiamo capire che a modi di produzione diversi corrispondono cose diverse.

Il feudalesimo era un sistema economico costruito intorno a usi e costumi e alle norme che regolavano “gli obblighi”. Il capitalismo è strutturato intorno a un’entità puramente economica: il mercato.

Da questo possiamo dedurre che il postcapitalismo – la cui precondizione è l’abbondanza – non sarà solo la variante di una società di mercato complessa. Ma oggi possiamo avere solo un’idea vaga di quali saranno gli aspetti positivi.

Con questo non voglio evitare la domanda: si possono già delineare i parametri economici generali di una società postcapitalista, per esempio dell’anno 2075?

Se questa società sarà strutturata intorno alla liberazione dell’uomo, e non all’economia, è impossibile prevedere in tutto e per tutto cosa le darà forma.

Per esempio, la cosa più ovvia agli occhi di William Shakespeare, nel seicento, era che il mercato aveva fatto emergere un nuovo tipo di comportamento e di morale. Per analogia, l’aspetto più ovvio per uno Shakespeare del 2075 potrebbe essere la rivoluzione dei rapporti tra i generi, della sessualità e della salute. Forse non ci saranno più neanche i drammaturghi: forse la natura stessa dei mezzi che useremo per raccontare le storie cambierà, proprio come era cambiata nella Londra elisabettiana quando furono costruiti i primi teatri.

Pensiamo alla differenza tra il personaggio di Orazio in Amleto e quello di Daniel Doyce nella Piccola Dorrit di Charles Dickens. Entrambi sono portatori di un’ossessione tipica del loro tempo: Orazio è ossessionato dalla filosofia umanistica, Doyce è ossessionato dalla possibilità di brevettare la sua invenzione. Non ci sarebbe spazio per un personaggio come Doyce in Shakespeare: nella migliore delle ipotesi avrebbe una particina comica come esponente dei ceti inferiori. Ma quando Dickens descriveva

Doyce, molti suoi lettori conoscevano qualcuno come lui. Così come Shakespeare non poteva immaginare un Doyce, noi non siamo in grado di immaginare il tipo di uomo che la società produrrà quando l’economia non avrà più un ruolo centrale. Possiamo però farcene un’idea pensando ai giovani che nel novecento hanno infranto le barriere di sessualità, lavoro, creatività e coscienza di sé.

Il modello agricolo feudale si scontrò innanzitutto con i limiti dell’ambiente e poi con un grande trauma esterno: la peste. Dopo la peste ci fu un trauma demografico: pochi lavoratori per la terra, con il conseguente rialzo dei salari e l’insostenibilità del vecchio sistema degli obblighi feudali.

La carenza di manodopera portò necessariamente all’innovazione tecnologica. Le nuove tecnologie alla base dell’affermazione del capitalismo mercantile stimolarono il commercio (stampa e contabilità), la creazione di ricchezza commerciabile (attività estrattiva, bussola e navi veloci) e la produttività (matematica e metodo scientifico).

Questo processo è caratterizzato dalla presenza costante di due elementi che possono sembrare marginali all’interno del vecchio sistema ma che diventeranno la base del nuovo sistema: la moneta e il credito.

Nel feudalesimo molte leggi e costumi nascevano proprio dal fatto di ignorare la moneta, e nell’alto feudalesimo il credito era considerato un peccato. Quindi, quando la moneta e il credito sfondarono gli argini creando un sistema di mercato, fu una rivoluzione.

Successivamente diede nuova linfa al sistema la scoperta di fonti quasi illimitate di ricchezza nelle Americhe.

Grazie alla combinazione di questi fattori, una serie di soggetti emarginati dal feudalesimo – umanisti, scienziati, artigiani, avvocati, predicatori rivoluzionari e drammaturghi bohémien come Shakespeare – diventarono l’avanguardia della trasformazione sociale. Nei momenti chiave, anche se con qualche tentennamento iniziale, lo stato passò dall’ostacolare il cambiamento al promuoverlo.

Oggi l’elemento che sta corrodendo il capitalismo, razionalizzato a stento dall’economia convenzionale, è l’informazione.

Quasi tutte le leggi sull’informazione sanciscono il diritto delle aziende di raccogliere e conservare i dati e quello degli stati di accedervi, senza tenere conto dei diritti dei cittadini. L’equivalente della pressa da stampa e del metodo scientifico è la tecnologia informatica, con i suoi effetti a cascata sulle altre tecnologie, dalla genetica alla sanità, dall’agricoltura al cinema, dove sta rapidamente abbattendo i costi.

L’equivalente odierno della lunga stagnazione del tardo feudalesimo è il decollo bloccato della terza rivoluzione industriale, una fase in cui, invece di accelerare la fine del lavoro attraverso l’automazione, ci siamo ridotti a creare quelli che David Graeber chiama “lavori di merda” sottopagati. E molte economie stanno ristagnando.

L’equivalente della nuova fonte di ricchezza gratuita sono le “esternalità”, cioè i beni e servizi gratuiti e il benessere che nascono dall’interazione in rete. È l’affermazione della produzione non di mercato, dell’informazione non possedibile, delle reti peer to peer e delle aziende senza dirigenti.

Internet, come dice l’economista francese Yann Moulier- Boutang, è “sia la nave sia l’oceano” dell’equivalente moderno della scoperta del nuovo mondo. In realtà è la nave, la bussola, l’oceano e l’oro.

I traumi esterni del mondo di oggi sono chiari: esaurimento dell’energia, cambiamento climatico, invecchiamento della popolazione e migrazione. Questi eventi stanno alterando la dinamica del capitalismo, rendendolo insostenibile a lungo termine.

Ancora non hanno avuto lo stesso impatto della peste ma, come abbiamo visto nel 2005 a New Orleans, non serve la peste bubbonica per distruggere l’ordine sociale e l’infrastruttura di una società economicamente complessa e impoverita.

Una volta compresa la natura di questa transizione, è evidente che non c’è bisogno di un piano quinquennale studiato nei minimi particolari, ma di un progetto che abbia l’obiettivo di ampliare le tecnologie, i modelli d’impresa e i comportamenti in grado di sciogliere le forze di mercato, di socializzare la conoscenza, di sradicare il bisogno di lavoro e di spingere l’economia verso l’abbondanza.

Lo chiamo “progetto zero”, perché punta a un sistema energetico a zero emissioni, alla produzione di macchine, beni e servizi con costi marginali nulli, alla riduzione il più possibile vicino allo zero del tempo di lavoro.

Nel novecento la sinistra pensava di non potersi permettere il lusso di una transizione controllata: era un atto di fede l’idea che nessun elemento del nuovo sistema potesse coesistere con il vecchio, anche se la classe operaia ha sempre provato a creare un’esistenza alternativa dentro e “nonostante” il capitalismo. Una volta svanita la possibilità di una transizione in stile sovietico, la sinistra moderna si è preoccupata

unicamente di fare opposizione: contro la privatizzazione della sanità, contro le leggi antisindacali, contro il fracking e così via.

Se ho ragione, i sostenitori del postcapitalismo dovranno concentrarsi sulla costruzione di alternative all’interno del sistema, sull’uso innovativo e dirompente del potere di governo e sulla possibilità di indirizzare tutte le azioni verso la transizione, non sulla difesa di elementi sparsi del vecchio sistema. Dobbiamo imparare cos’è urgente e cos’è importante. A volte le due cose non coincidono.

Fase progettuale

Il potere dell’immaginazione diventerà centrale. In una società dell’informazione nessun pensiero, nessun dibattito e nessun sogno è sprecato, che nasca in un campeggio, nella cella di una prigione o nella sala da biliardino di una startup. Come per la manifattura virtuale, nel passaggio al postcapitalismo il lavoro in fase progettuale può ridurre gli errori nella fase di realizzazione.

E la progettazione del mondo postcapitalista, come succede per il software, può essere modulare.

Diverse persone possono lavorarci in posti diversi, a velocità diverse, in relativa autonomia l’una dall’altra. Se potessi creare una cosa dal nulla sarebbe un’istituzione mondiale capace di dare una forma corretta al capitalismo: un modello open source di tutta l’economia, quella ufficiale, quella grigia e quella sommersa. Ogni esperimento diventerebbe un arricchimento, sarebbe open source e con tutti i dati dei modelli climatici più complessi.

Oggi la contraddizione più grande è quella tra la possibilità di beni e informazioni gratuiti e abbondanti da un lato e dall’altro un sistema di monopoli, banche e governi che cercano di mantenerli privati, scarsi e commerciabili.

Tutto si riconduce a uno scontro tra rete e gerarchia: tra le vecchie forme di società modellate intorno al capitalismo e le nuove forme che prefigurano la società del futuro.

È utopico credere che siamo alla vigilia di un’evoluzione oltre il capitalismo?

Viviamo in un mondo in cui persone dello stesso sesso possono sposarsi e dove, grazie alla contraccezione, nel giro di cinquant’anni una lavoratrice media è diventata più libera della più spregiudicata libertina dell’epoca di Bloomsbury. Perché ci è così difficile immaginare la libertà economica?

È il progetto delle élite, chiuse nelle loro limousine scure, ad apparire superato come quello delle sette millenaristiche dell’ottocento. La democrazia delle squadre antisommossa, dei politici corrotti, dei giornali controllati dai magnati e dello stato di vigilanza sembra posticcia e fragile come la Germania Est di trent’anni fa.

Ogni lettura della storia dell’uomo deve prevedere la possibilità di un esito negativo.

Questa prospettiva ci perseguita nei film sugli zombie e sui disastri, o negli scenari postapocalittici di film come The road o Elysium.

Perché non possiamo immaginare una vita ideale costruita intorno all’abbondanza di informazioni, al lavoro non gerarchico e alla separazione tra lavoro e salario?

Milioni di persone cominciano a rendersi conto che gli è stato venduto un sogno che contrasta con la realtà. La loro risposta è la rabbia e la ritirata verso forme nazionali di capitalismo che porteranno fatalmente alla disgregazione del mondo. Assistere all’emergere di questi fenomeni è stato come vedere materializzarsi gli incubi che avevamo avuto al tempo della crisi della Lehman Brothers. Non bastano i sogni o qualche progetto orizzontale a corto raggio. Serve un progetto fondato sulla ragione, su elementi concreti e verificabili, capace di invertire il corso della storia e sostenibile per il pianeta. Ed è nostro dovere portarlo avanti.